I simboli in fotografia
Non volendo farla troppo lunga, il problema è che ci sono diverse ragioni oggettive che rendono impossibile per una fotografia essere una fedele riproduzione della realtà:
La prima, e forse più importante, è che l’immagine fotografica è bidimensionale, mentre la realtà è tridimensionale. Questo significa che la profondità in fotografia non esiste. Possiamo dare l’illusione della profondità, ma non possiamo riprodurre la profondità per quello che è.
Lo stesso vale per il tempo. La realtà evolve continuamente, si muove, cambia. Una fotografia è per definizione un oggetto statico. Anche qui, possiamo rendere l’illusione del tempo e del movimento in fotografia, ma non possiamo riprodurli effettivamente.
Infine, l’ovvio. La fotografia è per definizione un’opera visuale (anche se può ovviamente essere utilizzata in un contesto multimediale). Questo significa che tagliamo fuori tutte quelle caratteristiche che rendono la realtà vera e tangibile, ma che non passano dall’organo della vista: il tatto, l’odore, il suono, eccetera. Anche qui, possiamo provare a "far suonare" una fotografia (hai presente Minor White?), ma non possiamo metterci veramente un suono dentro.
E allora? Come si crea l’illusione?
Come fa una fotografia a trasmettere il senso di profondità, se non può riprodurla direttamente?
Come fa una fotografia a trasmettere il movimento?
Come fa una fotografia a trasmettere la sensazione del freddo?
La risposta a tutte queste domande (e a tutte le altre della stessa natura) è una sola: il fotografo deve imparare a utilizzare dei simboli.
Esistono simboli, se vuoi puoi chiamarle convenzioni del linguaggio visuale, che possono essere utilizzati universalmente (o quasi) per codificare all’interno di un’immagine concetti o sensazioni che non possono essere riprodotti direttamente dall’immagine stessa.
Un esempio banale?
Immagina di fotografare un’auto in movimento.
Ora, facciamo finta che:
Usi un tempo di scatto molto rapido (diciamo 1/8000 sec)
Riprendi con un angolo che non permette di vedere il guidatore
Non si vedono effetti dello spostamento d’aria causato dall’auto
Dall’inquadratura non si capisce che l’auto è in mezzo alla carreggiata di una strada
Riesci a immaginarti la scena? Concordi che in un ipotetico caso come quello descritto sopra un osservatore non sarebbe in grado di distinguere un’auto in movimento dalla stessa auto ripresa da ferma?
Esatto, quelli sono i simboli:
il mosso (selettivo dell’auto, o selettivo dello sfondo – panning – ) comunica il fatto che l’oggetto si sta muovendo rispetto al suo contesto.
Lo zoom in e zoom out si realizzano muovendo rapidamente lo zoom durante il tempo (lungo) di scatto, ad es. 1/8’ o ¼’, tenendo ben ferma la fotocamera.
quando vedi un pilota che tiene il volante di un mezzo, il tuo cervello immediatamente associa la scena a un’idea di movimento
se ci sono foglie che svolazzano intorno all’auto, queste suggeriscono che l’auto si muova, perché è lo spostamento d’aria che normalmente le fa alzare
un’auto in mezzo alla strada, di norma, di muove
La cosa eccezionale è che, come fotografo, tu hai la possibilità di scegliere. Se sei consapevole della forza dei simboli, puoi decidere di rappresentare un’auto in movimento in modo esplicito o ambiguo a seconda di quello che vuoi dire con la tua fotografia.
Non esiste un giusto o uno sbagliato, ma esiste la possibilità di sfruttare l’uso consapevole dei simboli per aumentare l’efficacia dei tuoi scatti.
Vedrai che se provi a guardare la realtà – e soprattutto le fotografie – in questi termini, ti accorgerai di quanto i fotografi esperti riescono a utilizzare i simboli per comunicare attraverso le loro immagini.
Un esercizio utile?
Prova a immaginarti diverse scene/messaggi che ti è capitato di incontrare in fotografia (o che ti piacerebbe realizzare), siediti alla scrivania, e comincia ad elencare i simboli che hai visto utilizzare o che ti immagini si potrebbero usare per far passare il messaggio.
Non fermarti ai primi che ti vengono in mente. Vedrai che all’inizio sembrerà facile, ma dopo tre o quattro voci comincerai a faticare. Non desistere. Cerca di arrivare almeno a una manciata, meglio ancora una decina.
Poi prova a metterli in pratica. Metti e togli i simboli in diverse fotografie di soggetti analoghi.
Riesci a percepire la differenza?
Riesci a controllare l’effetto sullo spettatore?
Un esempio. Quali sono i simboli che puoi usare per codificare la profondità?
Il simbolo più ovvio è la distorsione prospettica; ovvero, il fatto che gli oggetti più lontani ci appaiono più piccoli. Dunque, se in un’immagine abbiamo due oggetti che sappiamo essere di dimensioni simili, ma uno appare più piccolo dell’altro, allora il nostro cervello interpreta la differenza di dimensione come un simbolo di profondità.
Per estensione dello stesso concetto, linee per definizione parallele (come i bordi di una strada o le rotaie di una ferrovia) che appaiano convergenti comunicano profondità.
Poi c’è il fuoco. Il nostro occhio è dotato di una profondità di campo molto limitata.
Concentra la tua attenzione su un oggetto a una distanza di 30-40 centimetri. Lo vedi che lo sfondo (il muro al fondo della stanza) alla periferia del tuo campo visivo è tutto sfocato? Ora fai il contrario, focalizza l’attenzione sulla parete: è la mela in primo piano ora a essere tutta sfocata, o no?
Questo significa che il nostro cervello è abituato a interpretare automaticamente la presenza di sfocature come un simbolo di profondità.
Tradotto in pratica, sarà più difficile comunicare un senso di tridimensionalità attraverso un’immagine tutta completamente a fuoco, mentre possiamo amplificare questa sensazione sfruttando una profondità di campo ridotta e utilizzando il fuoco selettivo.
Basta?
Assolutamente no.
Uno dei simboli più potenti di profondità è l’ombra. Una superficie piatta, bidimensionale, non produce ombre. Se prendi un foglio e lo illumini direttamente non sarà proiettata nessuna ombra sul foglio stesso.
Ma se prendi una penna e la metti tra il foglio e la fonte di luce, allora ecco un’ombra.
Perché questo accada però, deve esistere la terza dimensione; ovvero, deve esserci uno spazio che distanzia la superficie del foglio dalla penna. Maggiore è la distanza della penna dal foglio (maggiore è la profondità della mia scena), più grande sarà l’ombra proiettata.
Il nostro cervello quindi impara ad associare la presenza di ombre con la profondità. Di conseguenza, le fotografie ricche di ombre tipicamente comunicano una sensazione di profondità più marcata delle fotografie più cariche di aree illuminate.
Ma possiamo andare oltre. Dato che siamo abituati ad avere a che fare con la luce solare, una sorgente di luce puntiforme che arriva dall’alto, il nostro cervello tende ad associare le aree illuminate con la convessità e con il "protendersi" in avanti, in alto. Al contrario, le aree d’ombra sembrano recedere, sprofondare, e trasmettono una sensazione di concavità. Altri simboli.
L’ultimo e poi ti lascio. Mai sentito parlare della prospettiva aerea?
Il fenomeno è dovuto al fatto che l’aria in realtà non è perfettamente trasparente. Il pulviscolo, le impurità e il vapore acqueo producono un effetto di diffusione della luce che cresce al crescere della distanza.
La conseguenza è che i soggetti più lontani appariranno più chiari, meno contrastati, e virati cromaticamente verso il blu.
Quindi, anche in questo caso, come fotografi possiamo accentuare o smussare la sensazione di profondità a seconda che amplifichiamo o riduciamo l’effetto di diffusione della luce a distanza, per esempio accentuando o meno le tonalità bluastre dello sfondo (con filtri in ripresa o in postproduzione).
Ancora più astratto, possiamo comunicare all’occhio una sensazione di profondità semplicemente riprendendo scene nelle quali lo sfondo sia di tonalità più chiare rispetto al primo piano.
Questo perché simuliamo (simbolizziamo) l’effetto della prospettiva aerea. Anche nel caso che l’immagine sia realizzata al chiuso.
Al contrario invece, le immagini in cui il primo piano è più illuminato dello sfondo (per esempio come conseguenza dell’uso del flash sulla fotocamera) tendono ad apparire più "piatte" e innaturali. Proprio perché vanno contro il modello visivo a cui è abituato il nostro cervello.
Ed è per questo che le immagini in controluce tendono invariabilmente a comunicare una sensazione di profondità maggiore rispetto alle riprese in luce frontale o laterale.
Esempio di ‘panning’: mosso intenzionale selettivo
Orari
Lunedì Chiuso
Da Martedì a Sabato
9.30 - 12.30 | 16.00 - 19.00
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