IL PROGETTO DI ROBERT FRANK
Come racconta Geoff Dyer nel suo libro “The Ongoing Moment“, alla metà degli anni ’50 il grande fotografo americano Walker Evans incoraggiò il giovane collega di origini svizzere Robert Frank a fare richiesta per una “fellowship” (in pratica un finanziamento liberale per la realizzazione di un progetto fotografico) alla fondazione Guggenheim.
Frank buttò giù una articolata lista che intendeva allegare alla richiesta, indicando i soggetti che avrebbe voluto fotografare per il suo progetto sugli USA: città riprese di notte, parcheggi e supermercati, autostrade, l’uomo che “possiede tre auto e quello che non possiede nessuna”, il contadino e suo figlio, la pubblicità, luci al neon, i volti dei politici più importanti e dei loro sostenitori, stazioni di servizio, uffici postali, cortili…
Insomma, ogni aspetto che al giovane fotografo venne in mente analizzando le proprie conoscenze sugli Stati Uniti, e l’idea di fondo (diciamo i suoi preconcetti) rispetto all’America.
Singolarmente, la lista sembra adattarsi perfettamente agli scopi di quelli che saranno i “New Topographics“, i fotografi che esplorarono i luoghi e i paesaggi americani con occhio disincantato e critico, in uno sforzo di oggettività, a partire dagli anni ’70. Ma qui siamo ancora in un’epoca in cui domina il reportage più classico, sebbene si stiano gettando le basi per qualcosa di profondamente nuovo, di cui Frank divenne l’esponente più noto, e non a caso è considerato il “padre” della Street Photography.
Nel 1955 Frank ottenne la sua “fellowship“, prese la lista e iniziò a girare per tutta l’America, scattando alla fine circa settecento rulli di pellicola, dai quali stampò qualcosa come trecento foto, organizzate in seguito secondo alcune specifiche categorie: simboli, auto, città, persone, segnali, cimiteri e così via.
Quando nel 1958 il suo libro “The Americans” venne pubblicato in Francia (e l’anno dopo negli USA), non restavano che labili tracce dell’elenco e delle intenzioni iniziali.
Il libro era nato sull’onda delle emozioni e delle idee trovate lungo il cammino, secondo intuizioni felici che fecero criticare il libro all’inizio, considerato all’epoca troppo innovativo, troppo “strano”, ma che ne fecero poi un classico tra i classici, e un esempio di narrativa fotografica tra i più importanti.
Questo breve racconto sembrerebbe indicare che avere un preciso progetto iniziale sia non solo inutile, ma addirittura negativo, se non per ottenere un finanziamento da qualche istituzione pubblica.
Eppure io stesso consiglio sempre, nei miei corsi, di buttare giù uno “statement“, un breve testo che espliciti le proprie intenzioni, e di allegarci una lista di spunti, di parole chiave, di informazioni utili.
Quello che spesso si dimentica è che il “progetto di un progetto” non è come quello di un edificio, che quando approvato va seguito alla lettera: il lavoro preliminare, come la lista di Robert Frank, è un portale di accesso all’idea che stiamo seguendo, qualcosa che accende la nostra ispirazione e ci guida nei primi passi. Ma poi può, a volte deve, essere abbandonato.
Capita che quanto abbiamo scritto resti valido sino alla fine, che diventi una sorta di “lay out” da seguire, ma è davvero raro. Già dopo i primi scatti, ci si rende conto che tutto ciò che avevamo in mente non ci convince più così tanto, che quegli spunti geniali non sono davvero tali, che insomma occorre lasciarsi ispirare dalla situazione contingente.
Ma di certo Frank non avrebbe portato a compimento “The Americans” se non fosse partito con una lista tanto circostanziata di soggetti da fotografare “assolutamente”.
L’errore da non fare è credere che i nostri preconcetti – che spesso è su questi (giocoforza) che costruiamo i nostri progetti nella fase iniziale – siano per forza la realtà, e che dunque a questi occorra rimanere fedeli.
Come diceva Dorothea Lange (che odiava la progettualità) “sapere in anticipo cosa stai cercando significa che fotograferai solo i tuoi preconcetti, il che è davvero limitante“.
I tuoi preconcetti, che ti appartengono, sono però un ottimo punto di partenza, l’importante è superarli, e per così dire utilizzarli.
Se visiti un luogo famoso, spesso cercherai di fotografarlo sulla base di ciò che conosci di quel luogo, o dell’idea che te ne sei fatto nel tempo. Così Parigi diventa “la città dell’amore” dove sembra che l’attività preferita delle giovani coppie in strada sia baciarsi alla Doisneau, e dove il monumento fondamentale sia solo la Torre Eiffel, sebbene sia evidente che c’è molto, molto altro, sia di positivo che inevitabilmente di negativo.
Un altro errore che vedo fare spesso è quello di lavorare invece per antitesi, che alla fine è solo un altro modo di seguire i propri preconcetti, ribaltandoli.
Se sono convinto – ad esempio – che l’India sia un paese colorato, dove la gente circola in groppa agli elefanti, le donne vestono Sari color rosso fuoco e dove in ogni strada si alzano spire di incenso profumato (un’India alla McCurry, per dire), potrei realizzare un mio reportage facendo in modo di riprendere l’esatto opposto, concentrandomi sui Paria, sulla sporcizia, la povertà, la disperazione, i malati, i deformi.
Le due realtà (che tali sono, in effetti e non solo in India) convivono, ma nessuna delle due è una “realtà vera”, ma solo frutto di una visione se non distorta, diciamo viziata da preconcetti.
Perché la realtà – e Frank ce lo dimostra – è assai più complessa e articolata di quel che pensiamo, e accanto all’orrore c’è la bellezza, come accanto alla violenza c’è la compassione, e il fotografo davvero capace non dovrebbe far altro che lasciarsi trascinare e mettere in campo, innanzitutto, la propria sensibilità. E aprire – anzi spalancare – gli occhi.
Così, l’India è anche un paese “hi-tech” da dove provengono i maggiori ingegneri informatici del mondo, e quando avviamo un software sul nostro computer se solo diamo uno sguardo alla lista dei progettisti che appare nella schermata iniziale, vedremo diversi nomi di chiara origine indiana, come Seetharaman Narayanan che ha collaborato a creare Photoshop e fa parte della “Hall of Fame” di Adobe.
Purtroppo, negli ultimi anni, il senso della tecnica ha prevalso ancor di più sulle capacità meramente interiori, e questo è frutto non tanto e non solo dello sviluppo del digitale, quanto del diminuire del tempo a disposizione: la nemica vera è la fretta.
Non ci si può davvero avventurare sulle strade della propria sensibilità quando si hanno solo tre, quattro giorni di tempo, e magari una famiglia appresso.
Senza la “fellowship” Guggenheim, probabilmente Frank non avrebbe potuto realizzare il suo progetto con tale tranquillità e senza avere tempi troppo contingentati, fermandosi invece quando occorreva, ritornando nei luoghi se necessario.
Molte delle foto che ammiriamo e apprezziamo di Edward Weston non esisterebbero se anche lui non avesse ottenuto una “fellowship” della fondazione Guggenheim nel 1938.
Ma oramai questa modalità è diventata rarissima, e a onor del vero anche prima non era così frequente.
La soluzione è allora quella praticata già molti anni fa da fotografi come Atget, e cioè dedicarsi a luoghi vicini, vicinissimi, come la propria città (in questo caso Parigi, o come Praga per Josef Sudek) dove si ha tutto il tempo di fare le cose con la necessaria calma, di ripetere le foto, tornare, incontrare le persone, avere ripensamenti.
Atget riprese Parigi come se fosse una città “abitata dai fantasmi”, in cui le persone non sono visibili o lo sono di sfuggita, trasformandola in un luogo magico e fuori dal tempo: qualcosa difficilissimo da fare senza conoscere approfonditamente il contesto, e avendo la possibilità di fermarsi e ritornare.
Avendo insomma a disposizione anni, non giorni.
Un lusso alla portata di tutti, se ci pensi su e se scegli un contesto a due passi da casa.
Ma c’è anche un altro modo, utile quando si è in viaggio e si vuole comunque realizzare qualcosa di valido anche solo in due o tre giorni.
Era un metodo che applicavo regolarmente quando lavoravo per le riviste e si aveva davvero pochissimo tempo per riportare a casa qualcosa di pubblicabile: stringere, zoomare potremmo dire.
Non “rappresentare” un luogo o una situazione sperando di poterla raccontare per esteso e in ogni aspetto fondamentale ma invecescegliere una specifica caratteristica, magari poco nota, della realtà in cui opereremo.
Ecco che allora studiare in anticipo e buttare giù una serie di idee e spunti diventa utile: l’importante è non restare avvinghiati a quelle note come l’edera a un tronco. Giunti sul posto, occorre saper cambiare idea, essere recettivi.
Ricordando sempre che è assai più interessante raccontare fotograficamente in modo approfondito e originale un singolo monumento o edificio, o un piccolo gruppo di persone, piuttosto che un territorio lavorando però superficialmente e in modo frettoloso.
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